Chapa-chapa é una tecnica di cucito usata dai sarti dell'África Occidentale;é una composizione "arlecchinesca" di pezzi di stoffa avanzata di colore e fantasia differenti... Cosí nasce il mio blog,fatto di esperimenti,immaginazioni,sovrapposizioni...non spaventatevi,se le mie mani hanno unito queste cose senza un apparente filo logico..perché come dice il sarto africano: "l´importante é cucire, la forma viene dopo"

FITZCARRALDO

FITZCARRALDO
« Chi sogna può muovere le montagne »

domenica 29 novembre 2009

venerdì 20 novembre 2009

KAYAPO'



La troup chapa-chapa questa volta, attratta dai miti ancestrali, è arrivata ad un villaggio di Indios Kayapò; per essere ben accetta nell’aldeia(villaggio) ,i report si sono dovuto presentare come nipoti di padre Renato, un prete che lavora da molti anni con questa gente; hanno potuto assistere ad una cerimonia in cambio di cocomeri e bibite. Le bellissime foto che il post vi presenta, sono state scattate dal fotografo della compagnia, Frão Valerão, mentre il testo è stato estrapolato dal libro:
"Il POPOLO CHE VENNE DALL'ACQUA"
Il popolo etnia Kayapò è una delle 225 giunte fino a noi e parla la lingua conosciuta con lo stesso nome appartenente al tronco linguistico Jè, lo stesso di cui fanno parte gruppi come i Kaingang, xavante, Timbira Apinayè,Canela, Sherente, Bororo, Parakatejè, Krikati, distribuiti lungo una linea che partendo dallo stato di Santa Caterina, al Sud del Brasile, risaliva fino al Parà(centro-Nord).
La storia ci riferisce che i Kayapò, al momento dei primi contatti con “quelli di fuori”, a metà del XIX secolo, erano divisi in tre gruppi importanti.
L’incontro con questi conquistatori fu disastroso, al punto che rischiarono l’estinzione completa.
I gruppi che hanno in qualche modo accettato la presenza della “tribù degli stranieri pallidi” hanno finito per scomparire. Coloro cui questa colonizzazione non era gradita, hanno lottato con ogni mezzo per la propria sopravvivenza.
I Kayapò si sono sempre distinti per una fiera opposizione ad ogni invasione.
Per questo ancora oggi, godono fama, sia presso i gruppi di indios vicini, che presso i “Brasiliani” di essere un popolo guerriero, socialmente ben organizzato.
É solo a partire dagli anni 1950-60 che i rapporti dei Kayapò con”l’esterno” sono diventati abbastanza regolari. Il governo brasiliano infatti, prima attraverso l’agenzia del servizio di Protezione dell’Idio(SPI) e poi della Fondazione Nazionale dell’Indio (FUNAI), diede inizio ad una politica di “adescamento” nei confronti delle popolazioni indie. Mediante l’offerta di utensili utili per la vita domestica (accette ,coltelli,pentole, vestiti,perline colorate,ecc..), col pretesto di difenderli e proteggerli dai nuovi occupanti, ne ruppe l’isolamento e favorì , di fatto , la penetrazione e colonizzazione dei loro territori.
IL termine Kayapò con cui vengono chiamati gli Indios , venne usato per la prima volta all’inizio del 1900. In questo caso, l’antropologia non fece altro che adottare il nome usato dai loro vicini-gli indios Yuruna- che li chiamavano così,semplicemente perché ai loro occhi apparivano” simili alle scimmie” (traduzione di Kayapò in Yuruna). Il pretesto per un simile appellativo lo fornì, forse, l’usanza dei Kayapò di radersi a zero la sommità della testa e di dipingersi il volto e il corpo di rosso e nero. Più verosimile, tuttavia, sembra essere la spiegazione che fa riferimento all’uso dei Kayapò di indossare maschere che rappresentano le scimmie.
I Kayapò accettano ormai questo nome anche se essi usano autodefinirsi “Mebengokre” ossia, essere umano (me); esistere (be); acqua (ngo); buco/luogo (kre) e dunque: “la gente che è nata dall’acqua”.
Probabilmente questa suggestiva designazione deriva dal fatto che proprio all’acqua si rifanno alcuni dei miti più evocati e cari a questo popolo.
Secondo Lux B. Vidal,che cita Terence Turner, il nome può aver avuto origine dal fatto che gli Apinajes e i Kayapò quando si riferiscono al loro territorio ancestrale, narrano di un grande fiume, probabilmente l’Araguaia, la cui traversata deve essere stata per loro un evento importante.
Anton Lukessh trova la spiegazione del nome nel mito dell’uomo “ che si trasformò in tapiro”.
Il mito infatti riferisce del tapiro- morfologia animale dell’indio Bira, di cui le donne Kayapò, ad insaputa dei mariti, erano innamorate- che venne per questo ucciso e buttato a pezzi nel fiume dai maritiri gelosi.
Le donne, per vendetta nei confronti dei mariti e per seguire l’amante, si buttarono nel fiume , trasformandosi in pesci.
Per recuperarle, anche gli uomini fecero lo stesso. Pescate, una alla volta immediatamente riacquistarono forma umana.
“Pertanto –conclude Lukesh- le donne diventano le antenate dei Kayapò e l’autodenominazione “Me-be-ngo-Kre” “ gente che viene dal fondo delle acque”, può rifarsi a questo mito.
Un altro mito narra di due fratelli gemelli, Kukrytwir e Kukrytkako, i quali, ancora in tenera età, stavano per diventare preda del grande avvoltoio reale.
Per salvarli, il nonno li nascose nella cavità di un albero che cresceva sul fondo di un grande stagno e, qui cresciuti e diventati sufficientemente robusti,riuscirono in seguito nell’impresa di uccidere il terribile rapace.
Rincuorati da questa grande impresa, gli altri uomini si riunirono a formare il popolo Kayapò.
A differenza dei miti di cui sopra, che parlano dell’acqua, un altro importante mito di grande interesse, riferisce che i Kayapò , sarebbero scesi dal cielo, seguendo il percorso dell’armadillo che per sfuggire al cacciatore, si calò sulla terra, scendendo lungo una corda. I soli ad avere il coraggio di scendere sulla terra, seguendo lo stesso percorso dell’armadillo, costituirono il popolo dei Kayapò.
Non meravigli il fatto che qui si parli di miti, più che di storia.
E tipico di queste culture- oltretutto rimaste pressoché sconosciute fino a poco più di un secolo fa- rifarsi al mito o agli antenati che lo rappresentano, più che agli eventuali eroi o avvenimenti della storia più immediata.
L a vita, anche quella del presente, non è altro che ricordo e rappresentazione, soprattutto nel rito, di quello che successe tanti anni prima.
I tempi del presente sono ripetizione ciclica del passato.
L’universo è circolare e circolare è la struttura del villaggio, con la grande piazza che così diventa centro del mondo e della vita del villaggio stesso.
A simboleggiare questa cosmogonia è il ngokon(crepitacolo), strumento ritmico che per la sua forma richiama l’asse centrale della sfera dell’universo. I Kayapò, ripetendo l’eterno tracciato circolare del sole, cantano e danzano al suono e ritmo dello strumento, dal crepuscolo all’aurora.
Così facendo, dicono di ritornare nella notte dei tempi, ricreando in un certo senso nel presente, l’energia necessaria per la continuità e la stabilità del medio ambiente e dei prodotti necessari per la sopravvivenza, la riproduzione della vita e delle differenti istituzioni sociali che garantiscono l’equilibrio indispensabile della vita della comunità.


























































se volete proseguire il viaggio ancestrale, cliccate la sorridente foto di lallalleiro qui di lato per essere trasportati nel suo blog http://lallalleiro.blogspot.com/
e scoprire il meraviglioso linguaggio dei segni dei Kayapò.

venerdì 4 settembre 2009

A SCUOLA NEL NORD DEL BRASILE



Un anno e mezzo che lavoro in una scuola elementare nel Nord del Brasile e mi rendo conto di quanto possa essere difficile per un bambino di queste parti imparare a leggere e a scrivere correttamente.
Molto spesso alcuni di questi bambini vivono situazioni familiari molto difficili di storie come quella di Reginalva che è rimasta senza genitori perche la mamma è stata uccisa dal marito che a sua volto è stato ucciso per vendetta dal cognato; o di Patrik e Jaklin che non hanno più i propri genitori perche il padre li ha abbandonati e la madre si è impiccata; o di Marcelo che vive con i nonni perche abbandonato dai genitori che troppo giovani non avevano un lavoro per sostenere la famiglia.
Con storie del genere alle spalle per un bambino studiare ed apprendere , soprattutto se non hai dei professori che ti seguono con professionalità e dedizione, diventa una cosa impensabile.
L’incompetenza degli insegnanti è disarmante, sono svogliati e la cosa piu grave è che non hanno alcuna preparazione e un minimo di cultura, scrivono e fanno gli errori(l’errore ortografico me lo posso permettere io , ma non un prof.) ; una professoressa una volta mi ha chiesto se l’italia è piu grande del Brasile? Una domanda che anche un somarone come me sa risponde!
Succede spesso che i “professori” alla fine dell’anno promuovono tutti senza riserbo ,cosi che hanno le ferie libere non dovendo tornare a scuola per i corsi di recupero; una volta un bambino tutto orgoglioso mi disse:” tio, tio nao sabe scriver , nao sabe ler , mas passei!”(zio, zio non so leggere, non so scrivere ma sono stato promosso!”)
Ma la colpa non è dei “professori”
In posti come questo l’unica “cultura” , è quella diffusa dalle svariate chiese cattoliche,evangeliche, protestanti, (fra un po’ vomito nel pensare i pastori protestanti che recitano appassionatamente la messa) che annebbiano di cazzate la testa della povera gente analfabeta, riempiendoli di sensi di colpa e rendendoli così potenziali donatori(i credenti qui pagano il dizimo ,ovvero una tassa mensile alla chiesa di appartenenza come “donazione”…”donate che Dio ha fame!!”) .
Le uniche librerie presenti sono di carattere religioso.
Ma come sempre la cultura manca dove l’usurpatore mangia, dove la terra è ricca di materie prime.
In questi luoghi la cultura fa male perche contrariamente ,sarebbe più difficile rubare; ma questa è una storia antica come il mondo.
La cosa stupefacente è che nonostante tutto i bambini sono bambini, sempre pronti a scherzare ridere e giocare; che soddisfazione quando cominciano a leggere, che bello quando la piccola Camilla sorride con la bocca a 2 denti e che piacere ricevere i loro abbracci ; sono felicissimi di partecipare alle nostre lezioni di recupero, basta che gli dai un po’ di attenzione e loro ti dimostrano subito gratitudine e affetto…..certo i piu dannati sono indomabili e ogni volta che proviamo a lavorarci , in me la frase che da ragazzino mi veniva spesso ripetuta mi ritorna in mente ….“ se non si bonu pe studià vanne a fatigà” ……….... sono eccezionali!